È il dato record del 2008 in Italia. «C’è chi accetta incarichi inferiori per salvare il posto di lavoro»
Davvero non ci può essere alcun dubbio: nel suo caso il licenziamento non ha proprio nulla a che vedere con la crisi. Con ogni probabilità Valerio Zappalà ha pagato il fatto di essere stato assunto dall’ex viceministro con delega alle Finanze Vincenzo Visco. Ma anche l’amministratore delegato della Sogei, già partner della Ernst Young, che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha dimissionato per rimettere su quella poltrona il suo predecessore Aldo Ricci (liquidato meno di due anni prima, secondo la Corte dei conti, con una faraonica buonuscita di 1,3 milioni) ha finito involontariamente per rendere il conto dei manager messi alla porta quest’anno ancora più salato di quanto già non sia.
Il direttore generale di Federmanager, l’organizzazione che rappresenta i dirigenti d’azienda, Giorgio Ambrogioni, lo definisce «un fenomeno strisciante, nel quale la parola licenziamento è stata sostituita con la formula della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ». Ma se non è zuppa è pan bagnato. E la formula serve soltanto a indorare un poco la pillola. Secondo una stima dell’associazione dei dirigenti, quest’anno sono stati licenziati dalle aziende italiane almeno 5 mila manager. È un calcolo che tiene conto dei 2.991 casi che sono stati gestiti direttamente dalle strutture più rappresentative che fanno capo alla Federmanager, ai quali si dovrebbero però aggiungere ancora altre 2 mila «risoluzioni del rapporto di lavoro» avvenute in aree più periferiche e non trattate in sede sindacale.
Una cifra decisamente enorme, soprattutto se si tiene presente il suo peso relativo: i dirigenti d’azienda italiani sono in tutto circa 82 mila. Parliamo perciò di un taglio secco del 6%. Che sfiora addirittura il 10% prendendo in esame anche l’emorragia di poltrone già registrata nel 2007, quando sono stati «indotti» alla «risoluzione consensuale», cioè dimissionati dalle rispettive aziende, qualcosa come 3.000 dirigenti.
Un altro chiaro segnale, se ce ne fosse ancora il bisogno, delle difficoltà crescenti del ceto medio. Con l’unica eccezione della situazione della zona industriale di Latina, dove sono stati mandati a casa a partire dallo scorso gennaio 55 dirigenti di imprese chimico-farmaceutiche, fra cui Pfizer e Abbott, le vicende più gravi si dipanano da Roma in su.
È stato calcolato che soltanto nell’area del milanese i manager licenziati quest’anno abbiano raggiunto la cifra record di 1.050, prevalentemente nel settore dell’informatica e delle telecomunicazioni. La Federmanager non manca di segnalare situazioni critiche, fra l’altro, in Eds, Pirelli, Siemens e Fujitsu engineering.
A Torino, dove la crisi ha cominciato a produrre effetti devastanti su tutte le imprese (il caso della Motorola ha fatto in queste settimane il giro d’Italia) il numero dei dirigenti che hanno perso il posto di lavoro è di 565, in larghissima parte, com’è comprensibile, nei settori collegati all’auto e all’informatica. Nell’area intorno a Roma i licenziamenti censiti dall’associazione dei manager sono stati addirittura 796. E anche nella capitale i settori maggiormente colpiti sono quelli dell’elettronica e delle telecomunicazioni.
Poi 227 licenziati a Bologna, dove il comparto che ha sofferto di più è quello delle imprese metalmeccaniche. Ancora 103 a Genova, usciti da aziende come la Elsag, 77 a Firenze, estromessi da società tessili e meccaniche, 69 a Parma (coinvolta anche la Barilla), 49 a Verona (con la questione Glaxo in cima alla lista). Non vanno poi dimenticate le vicende che riguardano Alitalia, Telecom Italia, H3g. Le società alle prese con il problema degli esuberi dirigenziali sono in continua crescita. Con risvolti in qualche caso clamorosi. E destinati anche a dettare la linea.
Racconta Mario Cardoni, vicedirettore dell’associazione dei dirigenti, che «a Telecom Italia, ma in qualche caso anche alle Poste, sia stata proposta ad alcuni manager la retrocessione invece delle dimissioni. Chi accetta, resta in azienda con la qualifica di quadro ». E, naturalmente, una consistente riduzione di stipendio. Spiega Ambrogioni: «Si tratta di figure più professionali che veri e propri manager. Tecnici magari assunti come quadri ai quali era stato concesso un avanzamento di carriera per non farli andare via dall’azienda. E ai quali ora, che la crisi impone pesanti ristrutturazioni, l’azienda chiede di fare il passo del gambero ». Episodi. Che tuttavia potrebbero sconvolgere un principio finora ritenuto intoccabile nei rapporti di lavoro dipendente: quello secondo il quale una volta raggiunto un determinato grado, nello stesso posto di lavoro non si può tornare mai indietro. Anche se dovessero cambiare le mansioni.
Per alcuni che hanno accettato di essere degradati, tuttavia, rispetto a inesistenti prospettive di una rapida ricollocazione alle stesse condizioni, la retrocessione ha rappresentato comunque la salvezza. Dice Ambrogioni: «Siamo gli unici lavoratori dipendenti che pagano la mobilità ma poi non ne possono usufruire. Vista la situazione drammatica, ho chiesto al ministro del Welfare Maurizio Sacconi di introdurre nel decreto varato dal governo per fronteggiare la crisi una norma in grado di assicurare l’indennità di mobilità ai manager licenziati che abbiano superato i cinquant’anni».
Ma chi l’avrebbe mai detto che un giorno anche i dirigenti d’azienda avrebbero avuto bisogno dei tradizionali ammortizzatori sociali, oltre a quelli che la categoria si autogarantisce? I dirigenti ultracinquantenni che perdono il lavoro hanno diritto a 1.500 euro lordi al mese per un anno. Quelli più giovani si devono invece accontentare di otto mesi. I soldi arrivano da un fondo finanziato dal contratto collettivo.
«Quella che si sta verificando — afferma il direttore di Federmanager — non è la prima grave crisi per i dirigenti d’azienda. Va ricordato, per esempio, che all’inizio degli anni Novanta si persero 20 mila posti sui circa 100 mila di allora. Ma ora quello che colpisce è la vastità del fenomeno. Si accendono fuochi da tutte le parti. Prenda l’Alitalia: soltanto in quel-l’azienda stiamo gestendo 90 licenziamenti, visto che dei 150 dirigenti della compagnia di bandiera ne resteranno una sessantina. Poi c’è il polo chimico-farmaceutico, con 700 dirigenti a rischio fra aziende piccole e grandi e l’indotto. Per non parlare della durata dei rapporti di lavoro. Ormai i casi di manager che durano meno di un anno e vanno a casa soltanto con l’indennità di preavviso sono diffusissimi ».
Ma c’è pure chi il posto non lo rischia affatto. Anzi. Qualcuno si trova perfino nella condizione di diventare manager pubblico senza aver fatto nemmeno un concorso. Direttamente dalla politica e grazie a una «retrocessione» in questo caso a dir poco curiosa. A maggio di quest’anno, mentre la situazione economica si stava facendo già difficile e anche le imprese molisane cominciavano a mandare a casa qualche manager, i consiglieri regionali del Molise approvavano una piccola modifica a una legge del 2007 che gli spalancava le porte a un brillante futuro dirigenziale. Stabilendo che gli stessi ex consiglieri o ex assessori, purché laureati e in carica per almeno cinque anni, avrebbero potuto ricoprire i più alti gradi dirigenziali dell’amministrazione regionale: direttore generale, oppure segretario generale del Consiglio, o ancora segretario generale della Giunta regionale. È o non è una beffa?
Fonte : corrieredellasera .it / Sergio Rizzo